Ýññå íà èòàëüÿíñêîì ÿçûêå

ÝÑÑÅ ÍÀ ÈÒÀËÜßÍÑÊÎÌ ßÇÛÊÅ: Âèðòóàëüíûé ðîìàí, Íà êëàäáèùå, Î ñåáå. (ÏÅÐÅÂÎÄ ÂÛÏÎËÍÅÍ ÐÎÁÅÐÒÎ ËÀÍÖÈ.)

Titolo originale: Âèðòóàëüíûé ðîìàí (èðîíè÷åñêèé ðàññêàç)
Titolo tradotto: Romanzo virtuale (racconto ironico)

Romanzo virtuale
Ogni donna sogna di incontrare un principe azzurro. Che sia immancabilmente buono e giovane, quanto meno nell’animo; che conosca le buone maniere, che si intenda di arte e, chiaramente, che sia ricco. Ma che principe sarebbe senza regno? Siccome nel nostro paese l’aristocrazia è stata sterminata da un bel pezzo e di nuove non ne sono spuntate, le attenzioni delle dame di casa nostra si rivolgono, di tanto in tanto, verso lontani, seppur seducenti, paesi stranieri. E con l’informatizzazione globale, il fenomeno ha acquisito portata mondiale. Anche a me, russa trentenne, affrancata da ogni sentimento di gratitudine verso la patria, è venuta voglia di cercare la propria metà oltre confine. Dopo aver girato in lungo e in largo la nostra cittadina universitaria alla ricerca di un’agenzia che si occupasse di servizi di questo genere, sono arrivata alle conclusioni che seguono:
1. di agenzie ve ne sono molte;
2. servono alcune foto che permettano ai maschi “stranieri” di poter valutare le nostre grazie;
3. servono soldi per la pubblicazione di questi book fotografici su equivoci siti web e per il pagamento della corrispondenza che comincia ad arrivare copiosa da affascinanti uomini stranieri.
Le fotografie scattate dal miglior fotografo di Tomsk erano disposte a ventaglio sulla scrivania dell’agenzia. Da esse sorrideva, timidamente, al mondo circostante una ragazza in prendisole rosa con una bretellina leggermente scesa sulla spalla nuda. Gli impiegati della società, affollatisi lì intorno, si profondevano, alla chetichella, in lagrime di tenerezza e prevedevano un successo clamoroso.
Trascorse un mese in penosa attesa… La cartellina di plastica conteneva, l’una affianco all’altra, le foto dei tanti Jim, John, Paul, Christoph e Mike, ognuno dei quali scriveva quanto fosse intelligente, buono, ricco e molto, molto sensibile. Tutti conducevano una vita agiata e si dilettavano in passatempi assolutamente impensabili nel nostro paese: golf, surf e i viaggi in giro per il mondo. Mancava solo un’affascinante compagna di vita proveniente dalla Russia in grado di apprezzare e capire che irripetibili uomini fossero.
Per selezione naturale, delle centocinquanta risposte inviate, allacciai relazioni cordiali con appena una decina di potenziali fidanzati. Tutti giuravano di avere sincere intenzioni, prospettavano un futuro radioso, ma alla richiesta di velocizzare l’incontro rispose sollecito solo uno di loro. Era un esemplare di prima scelta, almeno a giudicare dalle fotografie, e il suo paese mi attirava per l’elevatissimo livello di sviluppo e cultura al limite della decenza. L’impiegata dell’agenzia, in occasione di una mia visita, annunciò con voce paradisiaca: «Ma lo sa o no che tra una settimana prenderà un volo per Zurigo?».
Prepararsi per un viaggio è estremamente divertente. Nuovi paesi, nuovi visi, avventure e incontri. A un’amica chiedo in prestito una valigia bella e presentabile, a un’altra un vestitino inglese cosicché il mio nuovo amico, vedendomi incedere come in passerella, possa conservare memoria di questo quadro fino all’ultimo giorno della sua vita straniera. Mosca ha trovato posto tra le visite all’agenzia viaggi, all’ambasciata, gli aeroporti, l’acquisto veloce dei regali nei dintorni della stazione della metro Kitaj-gorod e della guida da Biblio Globus ed è poi rimasta al di là delle pareti di Šeremetevo-2. Sul cartellone pubblicitario sorrideva la mia immagine riflessa: «Dopotutto me lo merito!», mentre una mia cugina moscovita, che mi aveva accompagnato, piangeva senza smettere di togliermi gli occhi di dosso…
La Chrysler voyager sfrecciava lungo l’autostrada; distanti, in rapida successione, si susseguivano le Alpi, mentre Christoph aveva tutta l’aria di essere immensamente felice. Al di là del finestrino scendeva una fitta pioggerella mista a neve mentre il mio viso si rigava di lagrime. Il palazzo era a due piani; le pareti erano ricoperte di pelli di animali selvatici e di sculture d’avorio. Scendendo in piscina, passammo per il garage dove faceva bella mostra di sé l’autovettura estiva, una Mercedes cabriolet con sedili di pelle bianca.
Nell’acqua si riflettevano lucine variopinte, dal soffitto scendevano stalattiti di plastica e il tranquillo sottofondo musicale era coperto solo dal brontolio di Christoph che camminava trascinandosi come un pesce. Seduta sul bordo della piscina con un flute di champagne in mano, tentavo di non pensare alla mia fredda patria ormai lontana. La cena fu allestita con vera e propria eleganza regale. Sul tavolo di marmo, in un candelabro dorato si consumava una candela rossa, nei calici rimaneva ancora del vino Beaujolais e io, a gesti disperati, cercavo di esprimere la mia ammirazione, quando ormai mi ero resa conto, con orrore, di quanto i miei mezzi verbali fossero insufficienti. Ma l’amabile attenzione del padrone di casa, seduto a gambe accavallate, con una sigaretta tra le dita e gli occhi fissi sul decolleté del mio vestito da sera, confondeva non poco la mia attenzione. Durante il giorno Christoph lavorava mentre io tentavo di familiarizzare con il nuovo spazio. Rimasta a casa alcuni giorni di fila, cercavo di tener testa alle attrattive borghesi del comfort. Quando avevo ormai imparato usare della lavastoviglie e l’impianto stereo e avevo capito gli innumerevoli pro e contro della chimica della vita quotidiana, mi imbattei nelle attrezzature igienico-sanitarie. Il perno che fungeva da tappo nel lavandino non ne voleva assolutamente sapere di cedere ai miei disperati tentativi di cavarlo dal buco con l’ausilio di un ottimo coltello svizzero. E solo dopo aver lungamente e penosamente riflettuto sulla destinazione d’uso del pulsantino posto accanto al rubinetto emisi finalmente un’esclamazione di trionfo.

Le persone, le case, i negozi e gli scoiattoli nel bosco sembravano prender vita e saltar fuori direttamente dai libri letti da bambina. Tutt’insieme ricreavano un’atmosfera di calore casalingo e di benessere da tempo dimenticati. La mia mentalità guasta, però, resisteva testarda aspettandosi che di lì a poco sarebbe spuntata fuori l’insidia e ogni volta che uscivo di casa buttavo un occhio in ogni direzione.
Christoph se la prendeva per il mio cattivo inglese e mi ripeteva che avrei dovuto cambiare modo di pensare (sembra facile, non è mica un’acconciatura!) e mi rimpinzava di frutta: la quantità di banane consumate superava di gran lunga quella delle parole imparate. Il primo Entschuldigung da me pronunciato in tedesco, lingua madre di Christoph, produsse un effetto strabiliante nel suo comportamento che fino a quel punto aveva sottolineato, in ogni modo e maniera, quanto le mie capacità linguistiche fossero miserevoli. Sempre con il dubbio che potessi essere un agente del KGB, mi dimostrò la propria gratitudine elargendomi alcuni franchi per un viaggio in solitaire a Baden.
Siete mai stati in Svizzera sotto Natale? Sì, beh allora non dimenticherete mai queste cittadine giocattolo con i loro selciati, gli schiaccianoci e le cenerentole in vetrina, le viuzze che si insinuano zigzaganti tra le casette e i castelletti coperti di disegni e decorati con ghirlande natalizie e nastri colorati, o il fisarmonicista ceco che canta, decoroso ma povero, canzoncine di natale accompagnato dal tintinnio delle monete gettate nel suo berretto con paraorecchie. E altrettanto a lungo continuerete a sentire il profumo di caffè e di strudel di mele gustati al bistrot Mozart a due passi dalle principali rovine storiche che, taciturne, contemplano la frenesia quotidiana dall’alto dei loro sette secoli anni di vita.
Iniziai a prepararmi per tempo al viaggio al centro del paese, munendomi di una scorta di un paio di banane e di una manciata di noci. Lucerna affogava sotto la pioggia, l’ombrello nei patriottici toni del rosso e del bianco mi volò via di mano e io non potei in alcun modo allontanarmi dalle vetrine imbottite di originali orologi svizzeri. Noti per aver sfogliato le pagine pubblicitarie delle riviste illustrate, mi seducevano per la musicalità dei loro nomi: Tissot, Rolex, Longines, Breguet… La passeggiata si concluse con l’acquisto di un regalo e nel salvadanaio delle impressioni si aggiunse un senso di tenerezza per la minutezza di un regno visitabile in poche ore dopo il pranzo della domenica. In onore dei suoi ospiti, Christoph organizzò una sauna e per cena preparò una fonduta. Tony e Verena erano garbatamente sorpresi per il fatto che non conoscessi almeno qualche lingua europea, vollero conoscere la marca della mia auto e sapere se avessi mai visitato l’India. La frase “from heart to heart” con la quale Christoph rispose alla domanda su quali fossero i nostri rapporti e il mio naturalissimo fascino crearono un clima di amichevole comprensione che ispirava la certezza in un futuro radioso, e Tony, che svolgeva l’umile professione di contabile e che nella sua vita era stato solo in Canada, suscitò un sorriso indulgente. Christoph fu felice che l’esotica lady siberiana avesse fatto un bell’effetto e questo rafforzò ulteriormente il nostro ancor acerbo legame.
Passammo una mezza giornata a girare seriamente per Zurigo, sbrigando le piccole formalità legate al nostro viaggio in Tailandia. Il business di cui si occupa Christoph, nel settore dell’informazione, gli permette di partire periodicamente per lunghi viaggi in paesi caldi, in uno dei quali questa volta aveva intenzione di portare anche questa sua “crazy woman”.
Christoph era caratterizzato da regalità nella statura, nei soldi, nelle vacanze e nei modi. Tutto in lui era grande. Ma ciò che sorprendeva non era l’eccellenza quanto la misura che dimostrava di avere in ogni cosa: nei rapporti con le persone, nelle attività che faceva e nelle passioni che coltivava. Lo spirito aristocratico che la mia anima russa rimpiangeva trovava piena incarnazione in questo straordinario uomo. In questi pensieri ero immersa mentre con un cucchiaino mangiucchiavo un uovo cotto durante la nostra ultima colazione svizzera. Tre valigie di plastica rossa e una borsa di pelle posate sulla soglia simbolizzavano l’inizio di una nuova vita nel sud-est asiatico.
La cabina dell’aereo era illuminata da una pallida luce, gli altri passeggeri dormivano e io, sfinita per aver letto concentrata un opuscolo pubblicitario sul regno di Tailandia, mi misi a fissare l’oblò. La cabina si rianimò proprio mentre fuori apparivano le prime luci. L’aereo si avvicinava inesorabilmente a terra; la città notturna era una distesa di puntini luminosi, un grande e caldo abbraccio. L’applauso generale dei passeggeri del volo Zurigo-Bangkok coprì la scossa dell’atterraggio.
Grattacieli, cartelloni pubblicitari, canali, imbarcazioni cariche di scorte alimentari, mucchi di immondizia, bambinetti nudi, cani pigri: su tutti incombeva una densa coltre di smog che il timido sole mattutino cercava di penetrare. La megalopoli da dodici milioni di abitanti si stava preparando a trascorrere un nuovo giorno con noi. Lasciammo le nostre cose nella stanza d’albergo al ventisettesimo piano e ci tuffammo nell’irripetibile incanto della città, alternando visite ai templi di giorno e giri per i bordelli di notte.
Nel più importante palazzo reale inizialmente non volevamo farmi entrare. I corti calzoni alla zuava che portavo non erano consoni all’elevato status della rispettabile istituzione. Christoph, incupito in volto e con i biglietti in mano, bighellonava tra le palme mentre io mi aggiravo per la piazza in cerca di una soluzione. Una bottega di souvenir piena zeppa di gonnellini tailandesi salvò la situazione.
Umili, vagammo per i templi, fissando le dorature e i vetri dei mosaici, ascoltando il tintinnio degli invisibili campanellini buddisti, stupiti dagli idoli giganteschi, indifferenti all’entusiasmo dei visitatori.

Ampia scelta di ragazze thai. Dimenando morbidamente il culetto, facevano brillare gli occhi scuri e i denti bianchi al ritmo di canzonette pop. Gli europei strizzavano gli occhi e sorseggiavano bottiglie di Holsten. Aggirando tutti i quattro isolati del malfamato quartiere chiamato Nana, finalmente ritrovammo l’orientamento, ma i bikini venduti in quel posto erano troppo stretti per i miei fianchi. Ah, Nana, il mio cuore è rimasto lì con te e se Christoph non mi avesse trascinato via con la forza, tra quei corpi olivastri ne sarebbe spuntato uno bianco… L’appetito di Christoph, però, concentrato su altre sfere di interesse, ci spinse alla ricerca di un ristorante decente. Mentre prendeva accordi con il “tuk-tuk”, non sospettavo neanche a cosa andassi incontro. Con un ruggito questa carretta infernale si impennò e sfrecciò a velocità folle, tra i pedoni, le automobili e le motociclette. Le luci delle vetrine si fondevano insieme, il vento fischiava nelle orecchie e io me la ridevo selvaggiamente aggrappandomi con una mano al ginocchio di Christoph e con l’altra alla spondina. Un’insegna al neon che diceva “Mamma mia!” ammiccava allegramente quando scendemmo dalla carrozza soffocati dal gran ridere.
Ritornammo in albergo a piedi. Nell’aria notturna echeggiava la voce di un venditore ambulante di frutta attardatosi e noi ci sentivamo già a casa in quella straordinaria città.
I palazzi si alternavano ai tuguri, il lusso alla miseria, le ragazze di “Nana” erano indecenti puttane in servizio in ambigui nightclub, mentre la sporcizia che ricopriva le strade ricordava tristemente il mio paese. Non avevo più voglia di andare al parco dei coccodrilli, gli elefanti mi spaventavano per la loro stazza, e a causa dei rettili fui avevo avuto una crisi isterica. I tuguri, nascosti tra fiori e montagne di immondizia, riportavano alla memoria l’infanzia in miseria, mentre i Romeo e Giulietta thai, che per pochi spiccioli si esibivano in performance “amorose” nei bordelli di basso rango, suscitavano un sentimento di pietà.
La celebrazione della vita alla quale assistevamo mostrava il divario esistente tra la mi cultura e quella di Christoph: il livello del servizio non lo vedeva soddisfatto, mentre per me era tutto cosa già nota. Ecco perché entrambi aspettavamo impazienti la partenza per Hua-Hin, località situata a circa quattro ore di auto a sud di Bangkok.
La notte prima della partenza, però, mi venne voglia di fare una cosa che da tempo mi frullava in testa. Quando Christoph già dormiva profondamente, io, dopo aver scritto alcune lettere d’affari, mi misi un abitino americano che metteva in risalto le mie forme, mi definii le labbra con del rossetto rosso e, nascondendo nella scollatura alcuni dollari che avevo messo da parte e lasciando dietro di me una scia di profumo Coco, scesi nella hall. Il portiere di notte alzò sorpreso le sopracciglia, ma quando mi riconobbe mi fece un sorrise. Mi incamminai per la via centrale, lanciando sorrisi alle ragazze in vetrina e guardando con occhio sospettoso i turisti occidentali. Ero diretta verso “Nana”. I quartieri si succedevano uno dopo l’altro; persi di vista l’albergo e mi resi conto di essermi persa.
Il mio sogno di comprare una ragazza del “Nana” andò in fumo. Io stessa stavo già diventando oggetto di sguardi fissi, quando la mia attenzione fu catturata dall’insegna “Club”. Scesi nel piccolo scantinato e mi ritrovai in una gazzarra di persone che vorticava al ritmo del confuso brusio di un televisore. Prendendo coscienza della stravagante situazione in cui mi trovavo, avanzai verso un tavolino libero e, abbandonatami su un divanetto, incrociai lo sguardo di una giovane ragazza tailandese che fumava in attesa di clienti. La folla dondolava, la stanza era invasa da una densa coltre di fumo e tutti avevano l’aria di essere in attesa di qualcosa. La mia vicina mi guardava con interesse, sorridendo smorfiosa, senza però decidersi a rompere il ghiaccio. I dollari frusciavano dandomi fastidio e, accarezzando la mano olivastra, mi resi all’improvviso conto di quanto fossi stanca. Cosa ne sapeva questa giovane creatura della vita di una donna russa che si divertiva a recitare il ruolo di facoltosa compagna di un facoltoso europeo?…
Christoph inorridì quando venne a sapere della mia sortita. Certo, la sua donna poteva scegliersi un’altra donna, ma andarsene in giro alle due della notte per le strade di Bangkok era pericoloso! Mercury cantava a squarciagola, il vento agitava il mio foulard mentre la nostra Ford sfrecciava in direzione del posto in cui ci attendevano le nostre vere vacanze.
Una villa lussuosa immersa nel verde sovrastava la bidonville mentre di fronte si apriva imponente un cantiere e montagne di materiale edile di scarto ingombrava la strada. Per spostarsi comodamente, gli abitanti autoctoni utilizzavano veloci motociclette, sulle quali sfrecciava chiunque, sia piccoli che grandi. Il mattino ci attendeva un eccellente caffè e dopo una colazione a base di mango, papaia e altri frutti prelibati, visitammo i luoghi di interesse locali.
In cerca del “Giardino delle orchidee”, ci addentrammo troppo e ce ne rendemmo conto quando sparì ogni iscrizione in lingua inglese. Facendo un’inversione a U, Christoph perse il controllo della nostra Honda che stramazzò a tutta velocità sull’asfalto. Completamente ricoperti di sporcizia e sangue, rotolammo in un lurido canale tailandese e le mie urla di dolore e di spavento risuonarono per tutto il circondario. Nei giorni che seguirono preferimmo ritornare in spiaggia e la sera, claudicando come il gatto e la volpe, sceglievamo l’ennesimo simpatico ristorantino dove poterci deliziare della vita di villeggiatura.
Il parco dell’albergo era assai animato; il personale di servizio andava e veniva portando vassoi, mentre il presentatore sintonizzava il microfono. Ci guardammo intorno: Christoph in cerca di un buffet ed io osservando i presenti. Ad un tavolo vicino era seduta un’anziana lady in un vestito da sera scollato che svogliatamente indugiava nel proprio piatto. Sembrava quasi che non si accorgesse dell’arrivo imminente del nuovo millennio.
Il buffet si dimostrò eccellente: rimanemmo sedotti dalle ricercate leccornie, mentre la cacciagione arrostita allo spiedo e le altissime torte provocarono un palpito quasi religioso. Fui sottratta alla crapula dal vivace ritmo delle canzoni dei Beatles che coinvolsero tutto il pubblico in una danza. Lasciai da una parte scarpe e Christoph e mi ritrovai nel bel mezzo della pista da ballo tra tedeschi, danesi e americani. L’atmosfera era molto divertente; i fuochi d’artificio rimbombavano per tutto il cielo e l’anziana lady si dava alle danze pazze, ammiccando maliziosamente. «Eccomi là: quella sarò io tra molti, molti anni», mi venne in mente.

Ogni donna sogna quel felice istante in cui, sulla riva dell’oceano, sotto un cielo stellato, dalla tasca di un paio di ampi pantaloni verrà estratta e consegnata a lei una scatolina contenente un anellino di brillanti, accompagnata da parole convenienti all’occasione. Ma visto che Christoph se ne stava sdraiato, muto, su una chaise-longue, con lo sguardo fisso sul paesaggio notturno, decisi di prendere io stessa l’iniziativa e gli dissi qualcosa di affettuoso. Mi appoggiai al suo braccio, ma lui emise un urlo e io indietreggiai spaventata. Sulla manica bianca della camicia filtrò nitida una macchia di sangue. Accidenti, avevo proprio dimenticato la sua ferita.
Due sagome che passeggiano per la strada deserta, l’aria fresca della notte, le risate squillanti di un gruppo di persone ormai belle sbronze. La festa continuava anche se cominciava già a fare giorno…
Forse era un film che mi ero fatta in testa io, o forse era qualcosa che avevo visto da qualche parte… O forse niente di tutto questo era mai esistito. Gli album fotografici, i jeans per strada, i baci d’addio e, davanti agli occhi, un uomo alto, scuro di capelli, in camicia hawaiana con un braccio bendato che mi dice: «Good bye my love!». Seduta in aeroporto, aspettavo il mio volo e pensavo che la mia storia stava appena per cominciare…
Gennaio 2000

Titolo originale: Íà êëàäáèùå (ñåìåéíûé ìàðòèðîëîã)
Titolo tradotto: Al campo santo (martirologio di famiglia)

Al campo santo
Di gente ne era arrivata molta. Oppure era solo l’impressione dovuta all’angustia del luogo. Si affollavano tutti nella stradina adiacente e subito dietro premeva un’altra processione. La bara esagonale, ricoperta di un tessuto rosso, era appoggiata su alcuni sgabelli e ostruiva il passaggio. Tutt’intorno erano deposte borse e corone. Gli intervenuti, alcuni in abito scuro, altri colorato, ordinari vestiti di tutti i giorni, nell’attesa passano da un piede all’altro; gli uomini fumano, le donne bisbigliano.
Questo settore del cimitero è nuovo, il posto è stato sgomberato e ripulito di recente. Cumuli di argilla fresca incorniciano fosse rettangolari e riempiono gli spazi che le separano. Le tombe sono disposte molto vicine l’una all’altra. Alcune sono ricoperte. I monticelli sono compattati dalla pioggia, i lati lisci sono ricoperti di corone; i nastri neri sono mischiati con il fango giallo e si confondono con i fiori di plastica. È da poco piovuto e il terreno argilloso è stato talmente eroso da rendere impraticabile il passaggio fra una tomba e l’altra. I piedi scivolano, si divaricano, si impantanano nell’argilla che si incolla istantaneamente e si ingrossa intorno alle scarpe, appesantisce le gambe e rende incerto il passo. Si perde l’equilibrio, si rischia di cadere; sul mucchio accanto al bordo rimane una lunga impronta di mano.
Si venne a sapere che la tomba non era ancora pronta. La fossetta regolare, standard, era stata scalzata dall’acqua, i bordi si erano ingrossati e si erano mangiati centimetri indispensabili. I parenti stretti, in abiti scuri umidi si erano fatti strada per primi, e lì in piedi facevano segno con la mano: – no, non va bene, restate dove siete, bisogna fare qualcosa. Gli altri si affollavano sulla stradina asfaltata; la bara fu riabbassata sugli sgabelli, ci rilassammo e ci rallegrammo per la sosta forzata: non avevamo molta voglia di trascinarci subito nel fango. Io stavo tra i parenti stretti. Non siamo rimasti in molti e quindi entriamo tutti in un minuscolo spazio scivoloso. Stiamo dando sepoltura alla nonna paterna. Lei è l’ultima di una serie di morti che hanno falciato l’albero di famiglia.
Il papà;
suo fratello – mio zio;
il figlio di questo – mio cugino;
ancora un altro cugino – figlio della zia.
Tra gli anziani: il nonno;
la sorella della nonna;
suo figlio;
il figlio di un’altra sorella;
il marito della sorella della nonna.
Non era un parente diretto ma per me era come un fratello, un amico d’infanzia.
Si è impiccato nella casa della nonna, in cucina. Gli altri si sono spenti progressivamente, uno dietro l’altro, per il troppo bere. La nonna è morta di malattia. Era registrata al dispensario. Questo un po’ la giustifica, ma era solo una tra tanti ed era stata semplicemente più debole di altri. La generazione postbellica, felice per la vittoria, ha eretto case, ha generato figli, ha fatto carriera. Ha ripristinato l’Unione perché credeva nella patria. Credeva nel futuro. I figli sono cresciuti, hanno iniziato a lavorare nelle cooperative agricole, in fabbrica; hanno costruito la Cortina di Ferro, hanno difeso se stessi e i propri figli. Vivere non era facile, ma era divertente. Erano giovani. E i loro figli crebbero nel momento in cui partiva la Perestrojka. Furono chiamati in guerra a difendere se stessi e la propria fede. Chi è rimasto in vita è impazzito. Oppure è diventato un delinquente. A me è andata bene: ho iniziato a scrivere libri. Li ho seppelliti tutti, li ho pianti uno ad uno. Ogni mese eravamo al cimitero; ne conosco ogni settore. La città dei morti. Il paese dei morti. Croci, sepolcri, corone. I vostri corpi sotto di essi… Sono rimasta sola. Tutt’intorno solo vuoto nudo, malato di tensione. Spetta a me, in qualità di ultima rimasta in vita, portare avanti le vostre imprese e quelle dei vostri padri e nonni. Non ne ho le forze e non so come fare. Ma mi è rimasta la fede.
L’imprenditoria funebre è una delle attività maggiormente redditizie nella Russia del dopo-Perestrojka. Il becchino si sposta su lussuose macchine di marca. Il direttore di una società che realizza tombe monumentali è un’elegante signora. Io lo so quanto costano i servizi funebri, la preparazione del corpo in obitorio e a casa, il disbrigo dei documenti. Conosco bene l’odore che fa in casa dove sono coperti gli specchi. Conosco ogni pietanza del Silicernium, il banchetto funebre: zuppa di riso, uva passa e miele, frittelle, minestra di cavoli. Frutta cotta al posto della gelatina. I bicchieri e i cucchiai si comprano all’ingrosso, le panche si chiedono in prestito ai vicini. Sotto la bara viene messo un secchio pieno di calce. La strada viene ricoperta di odorosi rami di pino. L’orchestra, il fotografo e la messa funebre in chiesa a discrezione di ognuno. Dieci giorni passano in fretta, quaranta giorni volano senza che te ne rendi conto e dopo sei mesi ci si incontra di nuovo. Non tutti vengono.
La prima lezione sulla ritualità l’ho avuta dalla nonna paterna quando l’ho aiutata a seppellire la nonna materna. Ero troppo giovane per farlo da sola. Lei era così buona che si è presa la responsabilità di tutto. La mamma non sapeva mai cosa fare. Era solo in grado di trovarsi marito. Per tutto il resto dovevo pagarne le spese io. Ma non avevo né la forza né la voglia di tenerle il muso.
La mia esperienza tornò utile ad altri. Così andavano le cose al tempo. Quando a un’amica hanno ammazzato il marito, lei ha chiamato me per prima. Sapeva che io sapevo cosa fare. Anche un’altra amica lo sapeva quando mi chiese come ci si doveva sentire quando si dà sepoltura al proprio amato padre. Spero di averle aiutate. L’ho detto in risposta alla tacita richiesta che si leggeva negli occhi degli amici che mi erano intorno.
– Ognuno di voi ha un padre. Oggi diamo l’ultimo saluto al mio.
Piangono e io sono dispiaciuta per loro. So bene cosa significa.
Nel dolore ci stringiamo gli uni agli altri, iniziamo a conversare, ci perdoniamo le offese. Si diffonde una battuta tra parenti: così almeno abbiamo iniziato a vederci più spesso. La zia seppellisce il figlio: l’ultimo grumo sulla tomba, semplice, con una croce di legno, corone di ferro, un bicchiere di vodka. La sua amica, ubriaca come al suo solito, finisce di fumare una sigaretta, si accovaccia e pianta il mozzicone tra i fiori di plastica.
– Dai, Lekha, muoviti.
L’amica della zia fa la civetta con il taciturno lavoratore che sta sterrando la tomba adiacente, appoggia la bottiglia sul bordo e quando lui si allunga per prenderla, lei gliela accosta un poco e se la ride sbronza. Nella folla degli accompagnatori mi imbatto in un compagno di classe con la moglie: sono ubriachi fradici. C’è stato un tempo in cui ci frequentavamo. Dal cimitero ripartiamo su un camioncino chiuso. Quelli bevono vodka. Il camion prende una buca e la scossa li fa cadere sul pavimento. Ridono. Badili sporchi saltellano rumoreggiano. Finiamo tutti nel fango.
Al banchetto funebre di un altro cugino, nell’appartamentino tutto pulito e ordinato di sua madre, seduta a un tavolo elegantemente apparecchiato, ho conosciuto i suoi amici. Due fratelli gemelli, belli, slanciati. Uno di loro, occhi neri, mi ha fatto teneramente la corte. Non sapevano che Andrjukha avesse una cugina più grande. Lui me ne aveva parlato e mi aveva detto che non bevevano vodka, ma si facevano. Usciamo in strada a fumarci una sigaretta.
Quando siamo andati a seppellire mio zio, nell’autobus ero seduta accanto a Mishka. Erano vicini di casa e bevevano insieme. Le mogli li avevano mollati. Lo ricordavo, però, come amico d’infanzia e non feci caso agli sguardi di disapprovazione. Con lui mi divertivo sempre, era un narratore straordinario. Non sapevo che era stato in guerra. Né sapevo che gli era proibito bere. Notai solo qualcosa di strano quando mi accompagnò. Si mise a declamare versi e a dire scemenze. Io sono sempre molto attenta alle parole. Salimmo in taxi e io non sapevo dove andare, cosa fare. Quando entrammo in casa mia, sfiorò il tavolo, strappò via la tovaglia e mi fece cadere. Rotolammo sul pavimento e lui urlò:
– Taverne! Taverne!
Tentava di salvarmi. Quando corsi fuori in strada, bussai alla porta dei vicini che avevano il telefono ed ebbi i brividi. Ma sapevo che Miška dormiva. Rimasi tre ore seduta accanto a lui, tenendolo per mano e dicendogli:
– Va tutto bene… tutto bene.
Il dottore disse che non era autorizzato a fare nulla. Non chiamai la madre: era malata di cuore. Lui si impiccò un mese dopo la morte di lei. In casa di mia nonna. Fu mia madre a dirmelo, a funerali già celebrati. Almeno il funerale l’ha avuto. Anche se poi non mi era parente.
Non sapevo come aiutarli tutti. Si odiavano a vicenda, si separavano, imprecavano l’uno contro l’altro e versavano lagrime di solitudine. Mio zio, che mi aveva insegnato a sopravvivere tra quelli come lui, aveva tentato di uscire dal giro. Si era comprato una casa e poi un macchina. Gli affari non gli andavano per niente male: non erano solo gli zingari a commerciare in fucili. Diceva di avere un carro armato in giardino da usare in caso fosse scoppiata una rivoluzione. La sua fu quasi una profezia: non sopravvisse abbastanza a lungo per vederne una. Stavo festeggiando il Capodanno a casa di un’amica quando qualcuno bussò alla porta. La mia amica mi chiamò dicendo che c’era il mio Vad’ka – era così che tutti lo chiamavano. Era ubriaco, bagnato di neve e di lagrime. Uscimmo in balcone e lì, nell’oscurità stellata, iniziò a piangere. Morì di solitudine. La madre lo odiava. Litigavano in continuazione. Non sopportavo di stare in quella casa.
Ci ritornai solo una volta che erano tutti morti. La casa era buia, terrificante. Le porte pendevano storte e le finestre erano grigie per la polvere. Mi sedetti su una panchina, accesi una sigaretta e scoppiai a piangere. Dai vicini si aprì un cancello e ne uscì un ragazzino. Non mi riconobbe. Mi guardò e pensò:
– Che  strana questa donna.
Per il fango si scivola. Per poco non cadiamo in una tomba. Io, mia madre, la zia ubriaca e sua figlia ci teniamo forte le une alle altre, ci manteniamo in equilibrio, ci sosteniamo a vicenda. Bisogna decidersi. Guardo i mucchi di argilla, gli accompagnatori e le corone sporche. No, così non se ne parla. Non voglio stare stesa in questo fango. Non voglio costringere la gente a tormentarsi nell’attesa. Non voglio finire come loro.
(Russia, 1998)

Voglio essere sepolta qui. Mi piace questo cimitero ben ordinato e pulito nei pressi di questa vecchia chiesa. Un praticello uniformemente e accuratamente rasato con pietre grigie allineate a intervalli regolari l’una dall’altra. Niente fiori. cammino da una pietra e l’altra, osservo nomi e date. Niente recinzioni e niente tombe. Il terreno uniforme, piatto. Calcolando a occhio dove potrebbe essere la testa e dove i piedi, faccio un cauto giro, cercando di non calpestare un immaginario rettangolo davanti alla pietra. Poi mi stufo e mi incammino, così come capita, sull’erbetta verde. Hanno avuto una vita rispettabile queste persone con nomi ignoti. Tra essi di tanto in tanto capitano anche dei bambini. Un secolo fa. Due secoli fa. Trent’anni, cinquant’anni, settantacinque anni. Beh, ognuno ha vissuto quanto gli è stato dato di vivere. Ci sono persino intere famiglie: madre, padre e figlia. Leggo i nomi, le brevi iscrizioni tombali. Nessuna enfasi, silenzio e pace. In rest. Osservo attentamente le righe mezze cancellate cercando di capire le parole. Sto bene qui. Solo una leggera inquietudine, certo, come è normale che sia in un cimitero, ma l’atmosfera è tranquilla. Conosco questo silenzio e non lo temo. Voglio solo trovare nomi a me noti.
(America, 2004)


Titolo originale: Î ñåáå
Titolo tradotto: Così sono

Così sono
Per me scrivere è un lavoro. Un lavoro duro per giunta.
Ho mi è capitato di leggere una volta un racconto di un mostro che aveva non so quale problema al collo e poteva dormire solo rimanendo seduto. Una volta tentò di stendersi per dormire come tutti e morì. Io sono così: se facessi qualcosa come tutti, morirei.
Ho iniziato presto a scrivere, quando frequentavo le prime classi delle elementari. Tenevo un diario: il documento analitico più veritiero sul mondo che mi circondava e su me stessa.
A casa mia leggevano tutti. Senza sosta. E bevevano pure.
Vorrei scrivere come Bunin, per sensazioni, come Platonov, per scontri semantici tra parole, come Rozanov, per la semplicità dei frammenti, come Čekhov, con schiettezza.
Se si vuole scrivere, bisogna parlare di se stessi: banale da far venire male ai denti. Per non ridursi a descrizioni di eroine, eventi, sensazioni, bisogna parlare di sé, di sé, di sé. Allora viene fuori qualcosa di buono, perché è tutto v-e-r-o. Vale a dire: niente celebrazioni o smancerie, ma semplicemente tutto quello che se ne sta lì, dentro di te, e ti tiene in pensiero. Lo nascondiamo con l’ironia, con il rancore e con continui ragionamenti sul più e sul meno. E in realtà la terminazione nervosa rappresenta la fonte di interesse per la tua opera e per te come scrittore. E magari non è neanche importante l’interesse per l’autore, bensì ciò che tocca il lettore. Ciò che c’è i-n o-g-n-u-n-o di noi e vale a dire che si scrive del lettore.
L’obiettività è una qualità di primaria importanza. Ed essa deriva dall’aver provato varie cose. Per poter vivere e comprendere vari aspetti della vita, è necessario fare confronti e tirare conclusioni: la verità è lì da qualche parte.
E dopotutto come è vero per Čatskij… Intelligente e mite, si è ritrovato infelice e inutile a chiunque… E per questo si è dileguato… Lo strapotere dei seri e dei tenebrosi, degli inanimati, ecco che cos’è che rende la Russia un paese incivile…
Un paese estraneo. E proprio così si sentiva Čatskij. Ed è diventato immigrante. Non però dissidente-delatore. È diventato semplicemente altro, un corpo estraneo.
Come si diventa una persona libera? Come si fa ad affrancarsi dal giogo? Non sono la prima che si pone questo interrogativo… Più di una volta la mia vita è stata rovinata da una bassa opinione di me stessa: «sono una nullità». E quanta fatica mi è costata per soffocarle tutte e, prima ancora, per soffocare me stessa! E finalmente dire: STOP. Eccessiva pietà e espiazione dell’altro: ecco cosa dà senso alla vita. E per quanto riguarda noi stessi?
Oppure l’estremo opposto: la furia del carattere. Picchiare a morte una persona perché non si lamenti: che femmine forzute, wow! Svilimento sino al pavimento: è insito nella nostra cultura. Oppure innalzamento sino al disprezzo: ecco su cosa si tiene tutto, un’altalena, uffa! Ah! Ecco come stanno le cose: né male, né bene.
Cosa vuol dire scrivere da professionisti? Esistono norme predefinite? Il pensiero vivo e libero troverà sempre da solo la propria forma di espressione.
La letteratura in Russia è appesantita. Non esiste né leggerezza, né semplicità. Volete conoscere un paese: leggete… Che non crediate, però, a tutto quello che trovate scritto. Si tratta solo di letteratura. Quando scrivo, ho paura di spaventare i lettori. Quando rileggo ciò che ho scritto mi rallegro. Chi, come me, non ama la vita?
Mai si è più prossimi alla morte come quando si è emigrati. Io sto troppo bene. Ho iniziato ad aver paura di morire, prima non mi succedeva. La saturazione di sentimenti genera avitaminosi.
Al posto delle vitamine, il sole. L’aria fresca. Il sostegno degli amici. Un’amica di vecchia data legge e depenna questo e quest’altro e quest’altro ancora. Ma con lei ci passo sopra: è ancora lì. Una nuova amicizia per posta elettronica, australiana, all’improvviso sparisce. Scrivo una lettera-appello. Mi risponde un servizio di risposta automatica in inglese: voglia prendere cortesemente nota, dice, che la tal dei tali ha avuto l’onore di lasciare l’Australia. Aggiunta in russo: ma andatevene tutti a fare in c…
Lentamente, maglia dopo maglia, la rete si disfa. Libertà significa diritto di scelta. Vivere dove voglio, con chi voglio e come voglio. Non a titolo gratuito: come pagamento prendetevi pure la patria, i parenti, la religione. Non me ne faccio nulla.
Quando vado a messa, guardo la lunga fila di parrocchiani con la testa china in avanti in segno di reverenza. C’è la comunione. Secondo l’ordine stabilito, è necessario prima confessare i propri peccati, cosa che non faccio da quando sono stata battezzata. Non ho commesso peccati.
Sono nata in Russia.


Ðåöåíçèè
Íà ýòî ïðîèçâåäåíèå íàïèñàíû 2 ðåöåíçèè, çäåñü îòîáðàæàåòñÿ ïîñëåäíÿÿ, îñòàëüíûå - â ïîëíîì ñïèñêå.