La sindrome di Gerusalemme

(traduzione di M. Gallenzi)

«Pardon, monsieur, permetta che mi presenti: sono il professor Levin, David Levin», disse quasi in un sussurro uno strano tipo, tendendo la mano a Guillaume. A giudicare dall’aspetto il professore aveva sui quarant’anni e assomigliava tremendamente a quell’attore del Mondo di Am;lie, com’; che si chiamava? Mathieu, s;, e il cognome? Ko… Kosso… Kassovitz, esatto! «Mi ; stato detto che viene spesso qui. ; possibile che la mia domanda le sembri strana… ma, per caso, non sente una musica? Adesso, mentre guarda questo quadro?»
  Guillaume trasal; per la sorpresa, dopodich; per alcuni istanti ruot; la testa in cerca degli eventuali cameraman di qualche programma di scherzi in tv, ma in quella sala del museo d’Orsay non c’era nessun altro all’infuori di loro due. Guillaume deglut; e aggiust; gli occhiali. Con ogni probabilit;,  era una semplice coincidenza che quel visitatore occasionale avesse affrontato proprio l’argomento che lo tormentava da cos; tanto tempo. E se invece anche lui la sentiva, quella sconosciuta melodia? E magari provava pure quelle strane sensazioni?
«A volte s;, anche una musica. In ci; consiste la suggestione dell’arte, no?» Il sorriso gli riusc; solo a met; e, cos; storto, gli rest; impresso in faccia.
«La prego, monsieur…»
«Guillaume Belle, piacere di conoscerla».
«Monsieur Belle, ; molto importate: sente musiche diverse o sempre la stessa?»
Ma certo, anche quel professore con la faccia da attore la sentiva! Altrimenti non glielo avrebbe chiesto! Altrimenti non si sarebbe piazzato in tutta la sala proprio davanti a quel quadro, il Ritratto del dottor Gachet, l’unico che suonava. Guillaume aveva controllato –non solo in quel museo, ma pure al mus;e de l’Orangerie e al Marmottan Monet– dovunque erano presenti i suoi amati post-impressionisti. Silenzio. E soltanto il dottor Gachet  emetteva una melodia di pianoforte.
Il professore a quella notizia sussult;, gli occhi presero a luccicargli. E l; per l; invit; il nuovo conoscente a pranzare insieme a lui, siccome aveva molte cose di cui discutere. Un locale quieto, l; nelle vicinanze, un tre stelle Michelin. Uno di quei posti che, pur trovandosi a due passi dalla stazione della metr; che prendete ogni giorno, non rientrano mai nel vostro itinerario esistenziale. Be’, quasi mai, in fondo ci sono dei giorni in cui al museo vi si avvicina Mathieu Kassovitz, giusto? E al contempo dissipa i timori che avevate riguardo la vostra salute mentale.
Per la verit;, dopo gli antipasti, quando erano gi; passati al tu (in fondo erano quasi coetanei), in Guillaume si insinuarono vaghi sospetti che il matto non fosse lui. Anche se il racconto del tizio (come aveva poi chiarito, professore di fisica, israeliano) filava in modo del tutto naturale e non risentiva affatto di mancanza di logica.
Il narratore aveva iniziato da lontano: dalla sindrome di Gerusalemme. Di cui soffrivano esclusivamente i pellegrini venuti da paesi molto distanti, preferibilmente a piedi. Appena si trascinava ai luoghi santi uno di quei viandanti l;, subito s’ammalava di mania di  grandezza: annunciava ai quattro venti che era un certo personaggio biblico e cercava di mettersi con urgenza a salvare il mondo, ossia gli abitanti del luogo. Gli abitanti del luogo, ovvio, non desideravano essere salvati, ma chiamavano all’istante l’ambulanza, che poi portava il profeta dell’ultima ora direttamente al Kfar Shaul. Ce ne erano gi; parecchi ricoverati l;.
«Orbene, gli psichiatri confermano che la nostra sindrome di Gerusalemme non presenta affatto caratteristiche uniche, e sono noti perlomeno altri due esempi di simili improvvise malattie: la sindrome di Stendhal e quella di Parigi».
«Ho letto della sindrome di Stendhal» si affrett; a interloquire Guillaume. Non gli andava di far la figura dell’asino. «Riguarda la galleria degli Uffizi, tipo che per l’abbondanza delle opere d’arte alla gente d; di volta il cervello, giusto?»
«Proprio cos;. Stendhal ha scritto davvero in relazione a Firenze, ma, ecco, riguardo alle cause non sono d’accordo con lui». Il professore fece un sospiro e appoggi; da una parte la forchetta. «In fondo, quali sono i sintomi? All’improvviso, lo sottolineo, all’improvviso iniziano le allucinazioni. Chi ne ; colpito racconta di aver visto quel determinato quadro come se con occhi diversi, quasi che stesse a dipingerlo o si trovasse nel luogo raffigurato sulla tela. Inoltre, il battito cardiaco e gli altri parametri fisiologici sono talmente alterati che non di rado chi soffre della sindrome perde conoscenza. Che cosa ci dice tutto questo?»
  A Guillaume tutto quello non diceva nulla. Ma l’israeliano neanche attendeva una risposta. «Che ha luogo un fenomeno di natura fisica. E a cosa assomiglia? Che cosa ci ricorda, a pensarci bene?» Il professore agit; la mano con il coltello, come se stesse tenendo una lezione. «La risonanza, caro il mio Guillaume! E, come conseguenza, l’aumento dell’ampiezza delle vibrazioni forzate. Ma non ; che per forza un ponte debba crollare quando ci passa sopra una schiera di soldati in marcia, o no? Occorre che coincidano le frequenze, quella dei soldati e la sua, quella propria del ponte, come nel nostro caso quella dello spettatore e del quadro».
  Ma proprio a quel punto Guillaume venne preso dal dubbio.
«Non ho mai sentito che i quadri hanno una frequenza»,  si sforz; di dire in tono neutro, senza sarcasmo e ironia.
«Naturale. Per; hai sentito parlare di aura, no? Di energia negativa e positiva, di sensitivi che, toccando un oggetto, ne hanno ritrovato il proprietario?»
«Certo. Ma, a onor del vero, a queste cose non ci credo, monsieur… David».
«Io non ti chiedo di crederci! Io ti chiedo… di dimostrarlo».
Guillaume pens; al dessert, che era di l; a venire, e ai matti. Alla fin fine non erano tutti pericolosi, era pieno di tranquilli teorici tipo quello l;. A quanto pareva.
«Ok, dammi cinque minuti. Semplicemente ascoltami», s’affrett; a dire il professore, interpretando in modo giusto la pausa. «Supponiamo, giusto supponiamo che esista un ipotetico campo mentale facente parte dei campi di torsione. E che le onde emesse dal cervello, dall’anima o da qualsiasi altra parte del corpo umano in teoria possano magnetizzare un certo particolare oggetto soggetto alla radiazione mentale, per esempio un quadro. Quadro che inizia a emettere un’onda di determinata frequenza. Se ne sta l; appeso a irradiare, e non succede nulla fino a quando non si avvicina qualcuno con una frequenza assai simile, capisci? E restando davanti al quadro magnetizzato, fa aumentare quella frequenza, finch; bum! non si origina la risonanza. Una risonanza niente male, con tachicardia e svenimenti».
«Ho capito. In via ipotetica ; possibile», disse Guillaume, non desiderando amareggiare il professore, a cui presto dovevano portare il conto.  Tanto pi; che aveva voglia di ricevere, seppure ipoteticamente, una risposta alla sua domanda. «Per; com’; legato alla musica che io sento?»
  La musica il professore non poteva spiegarla, per ora. Disse soltanto che era la soluzione e la chiave di tutto. Le persone colpite dalla sindrome di Stendhal, se interpellate, riferivano tutte quante d’aver sentito una sommessa melodia, diversa per ognuno, prima di… Be’, la risonanza, insomma. Ossia all’inizio sommessa. Poi sempre pi; forte, finch; nelle orecchie non si scatenava una vera e propria orchestra. Ecco perch; il luminare di fisica quantistica israeliano riteneva che si potesse facilmente indurre un attacco di sindrome di Stendhal. Grazie al graduale aumento del volume di una concreta composizione musicale. Ed era proprio ci; che a lui e a Guillaume sarebbe toccato di dimostrare.
A quel riguardo Guillaume vedeva due fondamentali problemi: in primo luogo, non aveva la pi; pallida idea di che musica gli stesse suonando nella testa il dottor Gachet; secondo, non lo affascinava affatto il pensiero di cadere svenuto nel bel mezzo del museo d’Orsay, anzi se le cose stavano cos;, non aveva voglia di svenire proprio da nessuna parte. Tra s; e s; aveva gi; deciso di non rimetterci pi; piede l;, visto che come prospettiva lo aspettava «Stendhal», e ad alta voce disse:   
«Sono davvero lusingato, David, sul serio, ma non ; mai rientrato nei miei piani di partecipare a delle ricerche scientifiche. Troverai un altro ricevitore di onde, ne sono sicuro!»
Il professore non profer; parola, finch; non termin; di mangiare il suo fondant al cioccolato. Si pul; le labbra con il tovagliolo e pronunci; pensoso, nel suo abituale tono interrogativo:
«Ti interesser; tantissimo sapere, caro mio, perch; i poveri turisti perdono coscienza, eh?»
«Come perch;? La risonanza!»
«S;, questo ; chiaro. Ma dov’; che va a finire la coscienza? Dov’; l’anima in quell’intervallo di tempo? Piuttosto lungo, bisogna dire!»
Si osservavano l’un l’altro negli occhi, senza staccare lo sguardo. Due turchine viole francesi e due mandorle del deserto tra il verdognolo e il castano.
«Nel quadro?» ipotizz; infine Guillaume.
«O magari nel pittore?» propose David, con il capo inclinato.
Guillaume pens; che era proprio vero quanto si diceva sull’abitudine degli ebrei di rispondere alle domande con una domanda. Poi, che si trattava di una cosa impossibile. Poi, che poteva essere solo cos;, era cos;, di sicuro. Si tolse gli occhiali e se li rinfil; di nuovo, un gesto che chi lo conosceva avrebbe interpretato come il segnale di un alto livello di agitazione. Picchiett; le dita sul tavolo, cosa che ai conoscenti avrebbe fatto capire quanto era intenso il suo processo mentale. Socchiuse le palpebre,  inspir; pi; volte, a intermittenza, e disse a bruciapelo:   
«Come lo determiniamo di che musica si tratta?»

***
Se per caso avete la fortuna di vivere in un tempo in cui la fonte delle informazioni ; Internet e lo strumento per riceverle ; uno smartphone, basta non perdere l’abitudine a pensare per trovare la soluzione assolutamente di qualsiasi problema. Per la precisione, una decina di tali soluzioni. Nella fattispecie, di programmi per l’identificazione delle melodie. Perci;, uscendo dal ristorante, i due si diressero al primo giardinetto nelle vicinanze e presero a tormentare l’iPhone di Guillaume. Invano. L’iPhone non aveva intenzione di cedere e li tormentava di rimando: ora il segnale era debole, ora c’era troppo rumore, ora venivano individuate certe canzoni in inglese che non assomigliavano affatto a quel motivetto. La questione era aggravata dal fatto che Guillaume poteva intonare solo l’inizio della melodia, il seguito non gli riusciva in nessun modo di riprodurlo, perci; tocc; tornare al museo. Attesero che il «dottore» restasse senza visitatori e registrarono a mezza voce  alcuni brani in MP3, pezzi diversi della musica.
A quel punto venne fuori che il professore aveva un telefonino del secolo passato. In senso letterale. Perci; non c’era nemmeno da sognarselo di far cantare uno dei cellulari, mentre l’altro avrebbe giocato a Indovina la canzone. Ma, per fortuna, reggendo in mano il suo dinosauro, David da quel modo di ragionare tecnologico pass; a uno pi; tradizionale e telefon; a un carrista suo commilitone. Ex commilitone, ovvio, del tempo del servizio militare giovanile, ora primo violino della New York Philharmonic. Gli fece ascoltare un brano di venti secondi registrato accanto al quadro e ricevette all’istante la soluzione. Seduta stante, si pu; dire, ovverosia  senza allontanarsi dal rinoceronte in bronzo di fronte all’ingresso del museo.
«C;sar Franck!» ripet; gioioso il professore quanto sentito in cornetta. «Sonata per violino e pianoforte in A-dur!»
«Che cos’; la A-dur?» Guillaume, che digitava il nome nel motore di ricerca, sollev; lo sguardo.
«Cos’; la A-dur?» David reindirizz; la domanda al di l; dell’oceano. «Ah-a, La maggiore!»
E al termine della conversazione tra gli amici di giovent;, il telefono di Guillaume stava gi; riproducendo la tanto ambita sonata. La sua sonata, che per cos; tanto tempo era rimasta occulta, attirandolo, dandogli speranze, facendolo impazzire.
«S;! S;, ; quella! Eh!» Non si accorgeva di star gridando a tutta Parigi, n; d’agitare il pugno contro il rinoceronte-guardiano, saltellando a passi alterni. Si precipit; verso David, che stava l; a ridere, lo abbracci;, gli diede una stropicciata ai capelli crespi. «Trovata! L’abbiamo trovata! La sonata in A-dur, ecco cos’era! Sonata in A-dur! La la la...»
Aveva voglia di raccontare a David tutto: e delle ore a tu per tu con il quadro, delle paure, lacrime e del senso di miracolo. Aveva voglia di tornare subito dal «dottor Gachet» e dare inizio all’esperimento, cadere svenuto, nell’ignoto.
Ma il professore disse che occorreva rimandare. C’erano un mucchio di cose da preparare e su cui riflettere. Bisognava ricevere il permesso per installare apparecchiature in modo da fare diverse misurazioni, nonch; analizzare le informazioni acquisite. Come quali? Per esempio, dov’era il violino? La sonata era stata scritta a pari diritto per il pianoforte e per il violino, che chiss; perch; non suonava nella testa. E poi i preparativi per il «volo»: i resoconti dei testimoni, o meglio di chi era gi; stato colpito dalle sindromi. Naturalmente, soltanto di quelli che non s’erano ammattiti dopo aver trascorso ore o giorni nel passato, un passato di decine, centinaia o migliaia di anni fa, spesso senza capire neppure una parola! Quindi l’indomani avrebbe saputo come evitare i potenziali pericoli e ricevuto tutte le altre istruzioni del caso. Si sarebbero incontrati sempre in quel posto, prima dell’apertura. Si scambiarono i numeri di telefono e le e-mail e si separarono, il professore perso tra i suoi pensieri, Guillaume pieno di aspettative. 
Per la verit;, lui voleva andare a casa, ma i piedi automaticamente lo portarono al Boulevard de Clichy. E una volta l;, lo lasciarono al Le Chat noir, locale adorato dalla boh;me post-impressionista, ad abbandonarsi ai sogni e ai vizi. Dei vizi, a dire il vero, il divieto di David di usare alcolici gli lasciava soltanto le sigarette e le belle donne, ma anche quest’ultime quel giorno sfilavano praticamente invisibili davanti agli occhi di Guillaume, focalizzati su un rametto di digitale.
Prese due caff;, un succo di arancia e una bottiglia di acqua minerale. Al tavolino accanto stavano chiacchierando delle turiste, a giudicare dall’accento americane. «Facciamo ancora in tempo ad andare al d’Orsay», diceva una all’altra, puntando il dito sulla cartina. «Oggi ; gioved;, ; aperto fino alle dieci!»
Guillaume senza fretta fin; di fumare la sua sigaretta. Ordin; un’altra bottiglia di «Perrier». Pag; il conto, si mise gli auricolari e per tutta la strada ascolt; la sua sonata. Tutto il tragitto di ritorno al museo.
Accanto al dottore non c’era nessuno. Guillaume si posizion; nel suo solito posto, regol; il volume e si mise a guardare quelle familiari pennellate. Gli pareva di conoscerle tutte a memoria, ogni centimetro, ogni mezzatinta. Il cuore gli prese a battere pi; rapido, e aument; il volume. Il soprabito blu scuro, i capelli fulvi, il berretto con l’orlo giallo. Davanti agli occhi presero a ondeggiare dei cerchi iridescenti. Pi; forte! Le gocce di sudore gli scivolavano sulla fronte e facevano bruciare gli occhi, batt; le ciglia, e quando dopo un istante le riapr; al posto del dottore c’era una tela grigiastra, ancora non dipinta, pi; in basso e pi; vicina, proprio sulle ginocchia.

***

«Stai di nuovo qua!» si mise a ruggire una voce sconosciuta, la mano lasci; cadere il vasetto con il colore e diede una botta sulla tempia. «Vade retro! Vade retro, demonio!» Le dita impiastricciate balenarono davanti agli occhi e si aggrapparono dolorosamente ai capelli. «Ma lasciami, mollami, maledetto!»
Per arrivare al tavolo con sopra le forbici da giardiniere ci volevano giusto due passi giganteschi, percorsi in un solo momento. La lama premette fredda sopra l’orecchio sinistro.
«Tanto ti distruggo, ti taglio, spirito ribelle, levati di torno, sparisci!» Lo sguardo, che guizzava per l’ampia terrazza, si incagli; su una borsa di tela grossa, appesa a un chiodo accanto alla porta chiusa.
  La tir; di scatto a s;, lacerandola, stramazz; sulle tavole in legno del pavimento, vicino cadde la rivoltella.
«Che, hai paura, disgraziato? Basta con i trastulli!» La canna si appoggi; sul petto, le vecchie scarpe ai piedi raschiavano l’assito.
«O Signore, no! Ma non ; successo en plein air?» esclam; Guillaume sempre con una voce che non era la sua. E lui stesso si rispose spaventato:
«Cosa? Tu parli in francese??? E prima perch; mai gridavi in russo, quando non mi facevi lavorare alle Donne di Arles?»
Diavolo! Che novit; era quella? Il russo Guillaume, ovvio, non lo conosceva. Significava che qualcuno era venuto prima di lui? Una precedente vittima di sindrome?
«Monsieur Van Gogh, per favore, posi quell’arma, le spiegher; ogni cosa, ma per cominciare la metta via», disse Guillaume nel tono pi; calmo che poteva, cercando di imitare i negoziatori dei film gialli.
E gett; la pistola in disparte.
«Chi sei? Un’allucinazione sonora? Una psicosi parlante?» S’alz; da terra e balz; verso lo specchio appeso in un angolo.
Vincent Willem Van Gogh, in carne e ossa, tutto arruffato, con la faccia rossa e le sopracciglia sollevate per la sorpresa, fissava Guillaume negli occhi.
«Malato, pazzo, malato…»
«Monsieur Van Gogh, il geniale, insuperabile, grande monsieur Van Gogh! ; difficile crederci, ma io non sono la sua pazzia, io sono Guillaume Belle, pittore parigino, del Ventunesimo secolo».
Certo, cos; tante informazioni tutte in una volta, tanto pi; riguardo il futuro… adesso sarebbero iniziate le domande  sui calcolatori di Jules Verne e i voli sulla Luna, ma bisognava pure in qualche modo ricondurre alla ragione il potenziale suicida! Ci mancava soltanto che fosse per colpa sua, di Guillaume!...
Vincent batt; le palpebre una, due volte, e all’improvviso scoppi; a ridere.
«Grande? Io? Magari altro, ma una cosa del genere non mi verrebbe mai e poi mai in mente da solo!»
«E il pi; costoso!» Nello specchio Vincent annu; con convinzione. «Il suo record ; ottantadue milioni e mezzo di dollari!»   
«Che? Quanto? Come?» l’artista scivol; sopra il comodino che gli stava accanto.
Bussarono timidamente alla porta. Vincent salt; su di scatto e, dandosi di corsa una ravviata ai capelli, si precipit; ad aprire. Sulla soglia c’era una giovane ragazza con un abito rosa lungo fino a terra e un’acconciatura alta.
«Mademoiselle Margot, l’ho di nuovo spaventata, abbia la compiacenza di scusarmi».
E quella giovane creatura era Margarita Gachet? L’oggetto di interminabili dispute tra i biografi di Van Gogh sul tema «c’era stato qualcosa o no»?
«L’unica cosa che mi inquieta, monsieur Vincent, ; la sua salute», disse l’angelo riccioluto e fece un leggero inchino. «Sono venuta da lei per sapere se non ; di disturbo alla sua arte, qualora io suonassi un po’ al pianoforte...»
«Ci mancherebbe, cara Margot, io stesso volevo pregarla di posare», rispose lui, girando lo sguardo sulla tela non dipinta, «ma oggi, credo... ; gi; piuttosto tardi...  per ragioni di illuminazione, s’intende».   
  Di fuori il sole splendeva a tutto spiano.
  «In tal caso mi permetta di congedarmi. Il nostro pap; oggi non verr; a pranzo, ci ha chiesto di svagarla e prenderci cura di lei. Desidera nulla, prima che io inizi gli esercizi?»
«La ringrazio, cara mademoiselle Margot, per ora non mi serve niente, pi; tardi verr; a farle visita in salotto». Lui chiuse la porta dietro l’ospite e, mentre Guillaume si poneva il quesito morale se valesse o no la pena di cercar di svelare quel segreto amoroso, torn; davanti allo specchio. Evidentemente, aveva necessit; di vedere il suo interlocutore.
«Come ha fatto a comparire dentro la mia testa?» domand; severo l’artista al riflesso. «E perch; proprio da me?»
Tocc; raccontargli tutto. Sia della sindrome di Stendhal, sia della risonanza, sia del buco temporale. Era giusto arrivato a parlare del suo gesto arbitrario, quando dal salotto giunsero le prime battute della Sonata. A giudicare dalle pause e dagli errori, la ragazza aveva appena iniziato a  impararla. Ok, bene, la musica eccola l;, ma il ritratto? Il ritratto del dottor Gachet, dov’; che stava?
«Qui, ovvio, in casa di monsieur Gachet, ; qui che l’ho dipinto», Vincent si strinse nelle spalle ed usc; nel corridoio. Santo cielo! Per primo gli salt; agli occhi un Pizzarro. Poco oltre, lungo la parete, erano appesi dei Monet del primo periodo e dei Cezanne, una quindicina di quadri, non meno. «Eccoli dove stanno, i grandi», comment; in tono triste l’artista. «Mentre io sto nella biblioteca».
La biblioteca risult; essere pi; che altro un piccolo studiolo: una massiccia scrivania, una libreria, una poltrona accanto alla finestra. Il ritratto stava sopra un tavoliere e si vedeva che era ancora fresco. Guillaume lo prese con cautela e lo avvicin; alla luce. E in quello stesso istante gli incominciarono a tremare le mani. I libri sul tavolo, il fiore dentro al bicchiere. Ottantadue milioni e mezzo! L’attuale proprietario ; ignoto. Ma era il primo ritratto! Il primo! E dov’era l’altro? Quello conservato al d’Orsay? Quello attraverso cui…
«Ma quale altro?» Vincent apr; la tabacchiera poggiata sulla scrivania e si mise a riempire la pipa. «Non ce n’; un altro, solo questo. Anche se, naturalmente, avevo intenzione di fare una copia per monsieur Gachet, ma poi non mi si ; pi; presentata l’occasione».
Guillaume rifletteva febbrilmente. Il quadro ancora non c’era? Era datato giugno, poco ma sicuro! Come del resto la prima versione, dipinta –stando alle lettere di Vincent al fratello– all’inizio del mese.
«Quanti ne abbiamo oggi?»
«Trenta».
Che significa questo? (Guillaume non s’accorse che s’era messo a pensare ad alta voce). Significa che domani ; luglio. Quindi, il quadro non c’; e potrebbe non venire mai pi; alla luce! E io ho cambiato dopotutto questa maledetta concatenazione quantistica di cui parlava il professore! Ho mandato a carte quarantotto l’unico tunnel spazio-temporale che collega tutto questo… con casa. O cielo, che succeder; adesso? A me, al mondo, a Van Gogh?   
Van Gogh fece una tirata con la pipa.
«A me? Un momento, come sarebbe? Se non far; il quadro, lei rester; con me per sempre?»
Guillaume non lo sapeva. Ma aveva davvero paura di s;. Soprattutto perch; di l; a un mese, per idea, Vincent sarebbe tornato dal plein air con una pallottola nell’addome.
Oddio… Il quadro doveva venire alla luce. Doveva essere realizzato!
«Monsieur Van Gogh, quando io… sono venuto, che cosa stava per dipingere?»
«Mademoiselle Margarita, ovvio. Con la fisarmonica o il pianoforte, ancora non ho deciso».
«La prego, maestro, la scongiuro… faccia il secondo ritratto del dottore! ; la nostra unica chance! Affinch; io possa andarmene al tempo opportuno, per cos; dire».
Ogni persuasione era superflua: Van Gogh desiderava sbarazzarsi di lui con tutta l’anima, anzi, in quel dato momento, con tutte e due le anime. Prese il ritratto del dottore, destinato in futuro a passare tra le mani di Goering e di Christie’s, e attraverso il corridoio pieno zeppo di capolavori lo riport; in terrazza, dove la tela non dipinta attendeva la sua sentenza.
Al di l; della parete la sonata termin; e ricominci; daccapo.  Sulla tela, quasi per magia, apparvero le prime linee. Guillaume osservava con entusiasmo e venerazione come il genio abbozzava subito con i colori la composizione.
«Stop! Scusi, monsieur Van Gogh, ma il bicchiere non c’era. E nemmeno i libri, a proposito».
  Vincent si ferm; in preda all’incertezza.
«E i colori l; sono diversi… E la tecnica…»
Dio mio, roba da matti! Gli toccava dare indicazioni al grande Van Gogh?
L’artista, con il pennello abbassato, guardava in silenzio il quadro iniziato.
«Se non sbaglio, lei, monsieur, ha detto di essere un pittore», profer;, infine. «E allora, mi faccia vedere lei!»
La tela prese a sussurrare: tu non puoi! Chi sei tu? Ti sei montato la testa? Non ci riuscirai!
Guillaume per un po’ scosse il capo, facendo segno di no. Poi allung; la mano in cerca degli occhiali e, non trovandoli, si mise a tamburellare le dita sul ginocchio. Strizz; le palpebre, sospir; alcune volte, a intervalli, e diede di piglio alla tavolozza.
In fondo conosceva quel quadro, conosceva ogni pennellata, ogni mezzatinta. Lo conosceva come il carcerato conosce i mattoni della sua cella, come il malato inchiodato a letto conosce le crepe sul soffitto.
E inizi;. Oppure iniziarono? In due? Da solo? Chi? Le mani piantavano i colori, le dita plasmavano la forma, le note s’intrecciavano all’olio, fissandosi nei petali della digitale e negli occhi trasparenti di Ferdinand Gachet.
Fece una capatina Margarita, le chiesero di seguitare a suonare quella meravigliosa musica… cos’era? «C;sar-Auguste-Jean-Guillaume-Hubert Franck, il mio compositore preferito», comunic;, con un incantevole rossore, la perfezione incarnata. «Un’opera molto difficile, la Sonata per violino e pianoforte».
«In A-Dur», aggiunse Guillaume con aria da intenditore. «In La maggiore!»
Rincas; anche il dottore dalla clinica, inizi; a infastidirli con i suoi discorsi, ma poi, vedendo su cosa stavano lavorando, s’affrett; a ritirarsi dietro la porta. Torn; pi; tardi a chiamarli a cena, ma gli artisti, scortesi, si limitarono a fargli segno di andarsene.
Fuori dalla finestra stava per iniziare il tramonto, quando venne stesa l’ultima pennellata.
Osservavano l’opera, esalante vernice e mestizia, con la testa piegata di lato e il pennello ficcato in bocca.
«Non ; il peggiore dei miei dipinti», tir; le somme Van Gogh senza particolare gioia. «Ma lei non ; scomparso, monsieur Guillaume venuto dal futuro. Pu; anche darsi che lei non esista affatto».
Guillaume si sforz; di ricordare qualche episodio della vita di Vincent di quei giorni, per convincerlo della sua assoluta realt;, ma non gli saltava in mente nulla.
  «Il professore supponeva che il quadro si magnetizzi quando sta per essere terminato, ma forse accade dopo, quando la tela si asciuga?» ipotizz; incerto.
«Se ; cos;, ci toccher; stare congiunti, se ci si pu; esprimere in tal modo, circa un mese? Nel migliore dei casi».
Van Gogh si mise a riporre i tubetti dei colori. Guillaume taceva. La prospettiva di restare con Vincent per un mese non lo spaventava troppo, sempre che ci fosse stata la garanzia di tornare, dopo, a casa. Nel suo abituale, amato corpo. Il corpo! Come aveva fatto a non pensarci prima! E s; che David aveva detto che tutto accadeva nel tempo presente! Ossia il corpo era in tilt per tutto il periodo in cui l’anima o il pensiero, o quel coso torsionale l; viaggiava, come ormai sapevano, per il cervello dell’artista. Se lui stava richiuso l; per un mese, cosa succedeva al suo corpo? Stava in coma?
Tutt’ad un tratto fu preso da un terrore assoluto. Se fosse stato ancora l; il 27 luglio… E magari tutto proprio perch; avrebbe continuato a stare l;…
«Monsieur Van Gogh, mi ascolti! Ho bisogno di raccontarle una cosa estremamente importante! Presto, fra quasi un mese», chiuse gli occhi e strinse le labbra, non sapendo se ne avesse il diritto, o il coraggio… «non lo faccia, la scongiuro, tutto il modo la scongiura… non lo faccia! Altrimenti… La tristezza durer; per sempre…»

«La tristesse durera toujours...»
  «; tornato in s;, be’, finalmente!» Ampia corsia d’ospedale, flebo, cardiofrequenzimetro. «Guillaume! Guillaume, sono io, David, mi senti?» Il professore si rallegrava, gli dava di tanto in tanto delle lievi pacche sulla spalla.
«Mi hanno telefonato subito, dal museo, perch; glielo avevo detto che sto lavorando sulla sindrome, per una diagnosi precoce e  tutto il resto», raccontava in fretta e furia il professore. «Ma per ogni caso hanno chiamato anche l’autoambulanza: non vogliono avere inutili problemi. Quindi,  sono venuto subito qui, ero davvero tanto in pensiero per te!»
«Tuuunooontiiiiaaaarrabbiiiii?» La voce era la sua, ma come fosse stata al rallentatore.
«Non ti preoccupare, ; normale al ritorno: ci possono essere problemi con la parola, con la vista e l’udito, movimenti incontrollati. Ma gi; domani passer; tutto, ti metterai a cicalare meglio di prima! Mi arrabbio di che? Macch;, sono contento che sei tornato indietro, mio eroe! Sono cos; felice! Sai cosa? Dormi, riposa, riprenditi. Domattina vengo e mi racconti tutto tutto, per filo e per segno! Santo cielo, non vedo l’ora! Basta, vado», e scomparve dietro la porta insieme con la luce e il suono.

  ***

La mattina, come aveva previsto anche il professore, nel suo amato organismo non erano rimaste tracce degli effetti fisiologici del ritorno. Guillaume fece la doccia, consum; con appetito la colazione e usc; a passeggiare. Il giardinetto ospedaliero non era certo il Boulevard de Clichy, ma il clima solo negli ultimi giorni si faceva finalmente riconoscere per quello di maggio, per abitudine centellinava ancora i raggi di sole.
Provava una sensazione strana e dolce a ripensare all’avventura del giorno primo. Lui, Guillaume Belle, semplice pittore, presto sarebbe entrato nella storia! Uno scopritore! Un pioniere! Il primo che intrepidamente — nell’intonazione cominci; a risuonare una nota d’orgoglio— era saltato nel gorgo, si pu; dire, a testa…Be’, magari non il primo. Cos’; che aveva detto Vincent?  Le donne di Arles? Si mise seduto su una delle panchine libere e tir; fuori l’iPhone. Ecco, le donne di Arles. Ovvero Ricordo del giardino di Etten. Be’, tutto chiaro perch; il visitatore precedente parlava russo: il quadro si trovava all’Hermitage! Ma non c’era da considerarlo, non avevano neppure dialogato! Per non parlare poi di «lavorare insieme»!
Espose il viso al tiepido venticello e scoppi; a ridere felice. Lavorare — insieme — con un genio! Mica uno scherzo. E che prospettive si aprivano! Si poteva andare ospite non solo da Van Gogh! Figurarsi una capatina da Leonardo! E insegnargli cos’; il paracadute, il carrarmato, la bicicletta… Anche se a trovare il Da Vinci, con ogni probabilit;, si sarebbero recati altri viaggiatori. Per farlo bisognava essere un inventore!  Un progettista o, chiss;, un ingegnere meccanico. Infatti, stando ai racconti del professore solo gli individui ultrareligiosi immaginavano d’essere profeti o apostoli, i semplici turisti erano immuni… Ohi, ma quindi? Significava che anche i profeti e perfino, forse, Ges; stesso… erano esistiti?!?
Si sent; le palme madide, il cuore prese a battere impazzito, sulla fronte gli affiorarono le gocce di sudore. Dapprima negli orecchi infuocati comparve una voce, la propria, e soltanto in seguito comprese che erano le sue labbra a muoversi.
«Cos’;?!? Dove sono? Possibile? Ma come?!»
Ruot; la testa tutt’intorno, a un tratto fiss; l’iPhone, lo scagli; nei cespugli. Balz; su dalla panchina e, girando lo sguardo, si mise a correre lungo il viale. Inciamp;, cadde, si ritir; su, imprecando, afferr; un’infermiera che s’era scostata, spaventata.
«Madame, non mi conosce? Guardi! Sono Vincent Van Gogh, l’artista!» Urlava, schizzando saliva. «Il grande Van Gogh, ma via! I girasoli, Notte stellata? No? Ma come, quello l; ha detto… Dov’; il dottore? Non conosce il dottor Gachet? Ottantadue milioni! E mezzo, madame! Dollari!!! Monsieur!» si gett; verso un uomo su carrozzella. «Lei deve conoscere il dottor Gachet! E s; che sta al museo! Dov’; il museo d’Orsay? Voglio vederlo con i miei occhi! Dove sta?» 
La gente si disperdeva da ogni parte, scappando dal luogo in cui l’uomo, urlando, si dimenava tra gli sbigottiti degenti della clinica. Qualcuno gridava qualcosa, un bambino piangeva, accorrevano gli infermieri, molti, tutti verso di lui. Chiss; perch; gli fecero una puntura sulla spalla, le braccia cessarono di muoversi, le gambe gli si intrecciarono, come quelle di un ubriaco. Una faccia barbuta e occhialuta gli ondeggi; davanti agli occhi e comand; in tono stanco:
«Su, portatelo al Van Gogh, il nostro amico… diagnosi: sindrome di Gerusalemme».





Note:

 
 L’ospedale Kfar Shaul , clinica psichiatrica di Gerusalemme, ; uno dei pi; noti centri di studio della sindrome di Gerusalemme.
 La tristezza durer; per sempre (La tristesse durera toujours... fr.), sono le ultime parole pronunciate da Vincent Van Gogh prima di morire per una ferita da arma da fuoco occorsa il 27 luglio 1890.
 Vincent Van Gogh Centre de sant; mentale et de r;adaptation de Paris (fr.) – Centro parigino di salute mentale e riabilitazione «Vincent Van Gogh».


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